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Gli U.F.O. e gli Alieni


Com’è facile per l’uomo moderno credere in Dio, gli Angeli, i Santi, il Paradiso ecc. e a non credere o quanto meno essere scettico sull’esistenza aliena e dei cosiddetti UFO. Oggi stiamo vivendo una difficile realtà pur ignorando  con sorprendente naturalezza quello che vediamo con i nostri stessi occhi, la chiesa cristiana è al collasso, i governi più potenti del mondo stanno volutamente destabilizzando paesi storicamente definite polveriere, l’inquinamento ed i cambi climatici sono inarrestabili, una crisi economica dalla dimensione quasi mondiale  e non credo che sia tutto qui. C’è sicuramente un sottile disegno, non bisogna essere necessariamente dei complottisti per immaginare che in tutto ciò ci sia una astuta regia dietro. Noi viviamo in una tecnologia avanzatissima che progredisce velocemente e che 40 anni fa potevamo solo definirla fantascienza, la pur geniale mente umana e comunque radicata in bigotte concezioni binarie, da sola non può essere arrivata a tutto questo, ( esprimo un mio modestissimo parere ) ok qualcuno dirà che la stessa tecnologia aiuta ad avanzare più velocemente, ma rimane il fatto che in circa 5000 anni la nostra evoluzione tecnologica è stata lenta per poi dare una sterzata negli ultimi 300 anni, se pensiamo che nel 1700 ci spostavamo ancora con carri trainati a cavallo! Oggi definiamo impossibili i viaggi interstellari e che la teoria della relatività la fa ancora da padrona certo, ma siamo andati sulla luna con computer paragonabili alla più antiquata  calcolatrice che abbiamo in casa. Arriviamo al punto, come possiamo essere così ottusi dal non capire che possono esistere alcune razze aliene più vecchie di noi e più progredite di noi? E che possono aver sviluppato una  tecnologia avanzata sufficiente per spostarsi da una galassia ad un’ altra ? Se avessimo la possibilità di tornare indietro nel tempo per descrivere la tecnologia che abbiamo ora a qualcuno dell’epoca ci prenderebbero per pazzi fanatici. Facciamo un ipotesi ed immaginiamo la terra nell’epoca jurassica e quindi popolata solo da dinosauri, ora immaginiamo che venga visitata da un popolo tecnologicamente avanzato, troverà un pianeta fertile e rigoglioso, ovviamente contornato da pericoli potenziali per la sopravvivenza di una razza umanoide sia pur avanzata, bene ora gli scienziati e paleontologi possono solo teorizzare su ciò che ha provocato l’estinzione dei dinosauri e di teorie ne  ho lette tante, sono e rimangono ipotesi come la mia, ma continuiamo con le divagazioni e  che a causarne l’estinzione sia stata una popolazione extraterrestre e che avendo la possibilità di vivere migliaia di anni ( nella traduzione del vecchio testamento fatta da Biglino ci sono varie citazioni sulla durata degli Elohim ) posso essere tornati, qui sulla terra, dopo aver sterminato i dinosauri, per colonizzare e formare geneticamente una nuova razza umanoide che serva ai loro scopi, magari come è successo nella nostra storia di conquiste territoriali, cioè per scopi militari, possono essere scese più razze per  contendersi le terre, magari forgiando ogni una di loro i propri esseri umani per scagliarli gli uni contro gli altri in guerre di quartiere a conquista delle terre disponibili, ovviamente con armi rudimentali che salvaguardasse l’ambiente poiché si può immaginare che con le loro armi tecnologicamente avanzate non fosse possibile combattere senza seminare distruzione. Sono farneticazioni  dite ? Mah, certo è, che leggendo la Bibbia con un occhio più attento si vede tutto questo e si potrebbe anche dare una risposta alle differenze somatiche delle nostre attuali popolazioni, in fondo quando Mosè partì con il suo popolo Ebraico verso " la terra promessa ", la stessa era già occupata da un popolo e dovette combattere per conquistarla. Sicuramente ho fatto un po’ di confusione nel descrivere una personale opinione che si ramifica in molteplici argomenti ma che sono collegati tra loro.

Vito Petaroscia

ENTRANDO NEL CREPUSCOLO (TWILIGHT)

Extraterrestri, alieni, entità non umane: per Johnatan Keel, ricercatore e scrittore americano, ci accompagnerebbero da millenni, con altri nomi. Dèi e demoni del nostro passato. Come i vampiri, o gli incubi e succubi di memoria classica, girerebbero di notte, nutrendosi della nostra energia psichica per rimanere immortali. Secondo altri, invece, fratelli di luce pronti ad aiutare l'umanità da ogni male, persino da sè stessa. Freddi o calorosi, amichevoli o spaventosi, da sempre ci osservano da quel mondo di penobra, un eterno crepuscolo (twilight) in cui sembrano confinati. Sono forse fantasmi di esseri vissuti ai tempi di Atlantide? Oppure sono visitatori in carne ed ossa? E se fossero proiezioni olografiche? Perchè molti vedono gli alieni durante le esperienze di pre morte o nel corso dei viaggi fuori dal corpo? Come mai in molti ritengono di poter comunicare telepaticamente con gli ET, quasi fossero spiriti di trapassati richiamabili con una seduta spiritica? Possibile che esista un piano della realtà o dimensione che non giaccia sulle nostre frequenze, in cui realtà e sogno, spirito e materia si confondano? Questa dimensione del crepuscolo, in cui i "Visitatori" vivono e viaggiano, è la stessa dimensione "astrale" ipotizzata dagli esoteristi dell'800? Si tratta solo di un sofismo intellettuale, o tale "continuum" ha una validità scientifica, tale da ospitare delle forme di vita a noi sconosciute? E sopratutto: è possibile per noi entrare in quella che lo scrittore russo Serjei Luk'janenko chiamava "zona del crepuscolo" e Neil Gaiman definiva "backstage"? Si potrebbero davvero scovare gli alieni in cantina o in un vecchio armadio, seguendo porte invisibili come faceva Alice nella sua strada verso il Paese delle Meraviglie? Graham Hancock nel libro "Sciamani" racconta le sue esperienze con le sostanze psicotrope, tramite le quali ha potuto vedere entità non umane. Solo allucinazioni, o una nuova frontiera dell'evoluzione umana? La nostra mente è veramente in grado di valicare i limiti di spazio e tempo, giungendo in quel nessundove nel quale tutto è collegato? Per i nativi americani, gli dèi amavano confonderci, prendendo le sembianze di animali selvaggi, di esseri di luce o di uomini simili a noi. Nella tradizione indiana, potevano anche decidere di entrare in un corpo umano e convivere pacificamente con un mortale: li chiamavano walk-in... Anche loro provenivano dalla Terra del Crepuscolo? Ed è giusto chiamarli alieni? A queste e ad altre domande, tenterò di rispondere il 28 Febbraio. O perlomeno, a ragionare assieme a voi sulle varie possibilità. E voi, volete davvero entrare nel Crepuscolo?

- Pablo Ayo

Pubblicato da Pablo Ayo sul suo sito Personale www.pabloayo.com

Le prove di Abduction

Stephen Hawking-Vite Aliene

UFO: Consigliere di Obama: “Dobbiamo dire la Verità”

John Podesta ha ricoperto alcune delle cariche politiche americane più illustri: è il consigliere uscente dell’attuale Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e Capo di gabinetto della Casa Bianca di Bill Clinton.
Allo scadere del suo mandato ha deciso di comunicare con un tweet i suoi 10 rimpianti del 2014.
Ma quello che sta facendo discutere, è l’ultima voce della lista, dove ammette che il suo più grande fallimento del 2014 è stato quello di non aver potuto diffondere i file sugli UFO e svelare la verità sull’esistenza degli alieni.
Non è la prima volta che il consigliere uscente lasci trapelare qualche informazione suigli “X-Files”.
Podesta ha chiesto pubblicamente il rilascio del materiale UFO durante un discorso al National Press Club nel 2002 e nel 2003.

“Penso che sia arrivato il momento di aprire i libri su questioni che sono rimaste al buio, sulle indagini governative degli UFO”, aveva dichiarato. “E’ tempo di scoprire che cosa sia in realtà la verità che è là fuori. Dobbiamo farlo perché è giusto e perché il popolo americano sia in grado di gestire la verità. E dobbiamo farlo perché è la legge”.

Un outing che si aggiunge alle molte dichiarazione rilasciate da alcune alte cariche del mondo, come l’ex premier russo Dmitri Medvedev, che invitò pubblicamente Barack Obama a rivelare la verità su UFO e alieni, o di Paul Hellyer, ex ministro della Difesa del Canada, che dichiarò di essere a conoscenza dell’esistenza extraterrestre, solo per citarne alcuni.
Fece discutere in particolare la dichiarazione di Boyd Bushman, scienziato che lavorò per anni nell’Area 51 e che prima di morire rilasciò l’estate scorsa, scottanti rivelazioni sugli alieni e i segreti della base militare, corredate anche da immagini.

 

Le prove

Non ci sono ovviamente perché celate scrupolosamente, se venissero divulgate provocherebbero una destabilizzazione mondiale, immaginate che il solo e famoso incidente di Roswell fu nascosto ad arte dal governo Americano dell’epoca per ragioni ovvie. Riporto una recente intervista di Maurizio Baiata,  al Colonnello Jesse Marcel Jr. recentemente scomparso e figlio del Maggiore Jesse Marcel,  testimone degli accadimenti del 1947:

28 novembre 2011 di
Maurizio Baiata

A Roma, in una calda serata dell’Aprile 2007 intervistai in video Jesse Marcel Jr., il figlio di quel Maggiore Jesse Marcel che nel 1947 fu fra i militari della base di Roswell, in New Mexico, che si occuparono delle operazioni di recupero dei rottami dell’UFO crash e che, per primo, rivelò al mondo che l’Esercito Americano aveva occultato tutto. Marcel Jr. all’epoca aveva 11 anni e oggi resta un fondamentale testimone dei fatti dell’estate 1947. Marcel, ormai ultrassettantenne, è un medico militare convinto che il senso del dovere non possa prescindere dalle ragioni della Verità.  Marcel Jr. era in visita a Roma su invito della giornalista Paola Harris, come straordinario ospite d’onore del convegno "Roswell 60 anni dopo". In seguito, ho avuto la fortuna e l’onore di incontrare di nuovo Marcel, con il quale ho visitato il Foster Ranch
http://mauriziobaiata.net/2011/11/03/sul-caa-roswell-sul-campo-dei-rottami…-e-l’astronave-jefferson/), ma questa è un’altra storia.
Maurizio Baiata: Dottor Marcel, o meglio Colonnello Marcel, lei avrà rilasciato migliaia di queste interviste…
Jesse Marcel: Sì, più di qualcuna…
 
Il col. Jesse Marcel Jr. al Foster Ranch (foto: Maurizio Baiata)
M.B.: Più di qualcuna… approssimativamente quante.
J.M.: Probabilmente più di un centinaio (sistemiamo il microfono). Anzi certamente alcune centinaia, nel corso degli anni.
M.B.: E quali differenze ha riscontrato, nell’impostare le interviste da parte di professionisti esperti UFO e gli altri, come giornalisti tradizionali, gli anchormen televisivi, ad esempio della ABC.
J.S.: Innanzitutto, molti dei giornalisti, come quelli della ABC, erano pronti con un elenco pre organizzato di domande scritte, il più delle volte. Altri invece impostavano le interviste in maniera più discorsiva, ad esempio chiedendo: "Mi dica quello che sa e che pensa di Roswell, cosa ritiene che accadde…".
M.B.: Tuttavia, l’atteggiamento deve essere stato piuttosto diverso…
J.M.: Certamente. I professionisti, quelli della ABC o del National Geographic Magazine – che mi delusero molto –  tendevano a distruggere Roswell. Durante le intreviste con loro avevamo approfondto tutto, i pro e i contro, aspetti positivi e negativi e poi quando sono state trasmesse, dopo il montaggio, restavano solo quelli negativi, dimenticando tutti gli aspetti positivi della vicenda. Il loro fine era smontare la storia di Roswell. Per me è stato molto scoraggiante.
M.B.: Questo, malgrado lei sia un ufficiale altamente rispettato, che ha affrontato prove ardue e loro sapessero che lei riferiva solo ciò che vide.
J.M.: Sì, ho sempre cercato di dire e ribadire ciò che ho visto. Non posso aggiungere o sottrarre o modificare nulla. Mi attengo alla realtà dei fatti e riferisco esattamente solo quello che ho visto. Questo è quanto. Prendere o lasciare, ci si creda o no, posso parlare autorevolemente solo di quello che vidi.
M.B.: E dovendo menzionare un’intervista più equilibrata delle altre…
J.M: Rispetto all’intervistatore o in generale? Beh, ho apprezzato gli intervistatori che sembravano maggiormente interessati alla vicenda di Roswell, o ad alcuni suoi aspetti, chiedendo: "Ci dica quello che vide e cosa ne pensò e perché. Cosa differenzia quello che vide da materiali molto comuni e usuali e perché li ritiene extra-speciali?".
M.B.: Mostravano, secondo lei, una certa preparazione sull’argomento, oppure ne erano completamente all’oscuro?
J.M.: In questo caso, per niente, semplici conversazioni del tipo "Prego, parta dall’inizio, cosa sa? Cosa vide? Cosa credette e cosa crede adesso?"
M.B: E la stesso accadeva con i cosiddetti "ufologi professionisti"?
J.M.: I giornalisti dei network non erano così… aperti. Avevan l’obbiettivo di smontare Roswell. Gli ufologi professionisti sapevano cosa avevo visto ed erano di mente aperta. Gli altri invece erano di menti chiuse e piene di preconcetti. Non considerano neppure i fatti e non c’è nulla da fare, gli dici cosa hai visto e che pensino quello che vogliono.
M.B.: Le prime indagini furono condotte da Stanton Friedman, Kevin Randle e Don Schmitt. Le risulta fossero in qualche modo collegati, che condividessero le loro scoperte?
J.M.: Non saprei. So che fu Stanton Friedman a intervistare per primo mio padre, nel 1978.
M.B.: Friedman, se ricordo bene, già allora era in cerca dei testimoni, i superstiti…
J.M. Rispetto molto Friedman, perché la sua ricerca ha segnato l’inizio della divulgazione della storia di Roswell e perché ha sempre cercato di individuare le persone realmente collegate ai fatti, verificare le loro versioni, corroborarne la veridicità o dimostrane l’infondatezza.
M.B.: Sia per Friedman sia per migliaia di ricercatori, il maggior problema sembra essere stato quello di collocare la data esatta dell’incidente, il luogo esatto e la sequenza precisa degli eventi.
J.M.: Esatto. Quando mio padre e io ne cominciammo a parlare era attorno al 1970 e già allora i ricordi iniziavano a sbiadire. Accadde ai primi di Luglio, verso l’inizio dell’estate 1947. In seguito, le prime interviste e le prime ricerche consentirono di individuare il punto in cui l’oggetto era precipitato e le date, con una certa precisione.
M.B.: Quindi la data più accurata sembra quella della notte fra il 3 e il 4 Luglio 1947.
J.M.: È quanto ho desunto io. Era estate, la scuola era finita e mi divertivo ad andare in bicicletta con i miei amici.
M.B.: Ok, a proposito della scuola, cosa successe con i suoi compagni di classe? Dopo quei fatti non sentiva di voler parlare con qualcuno di loro, più piccolo, o più grande?
J.M.: Assolutamente no, mi avevano detto di non parlarne…
M.B.: Lo so.
J.M.: Potevo pensarci, questo sì, ma non c’era nulla che potessi dire. Anche all’interno della nostra famiglia, non se ne discusse per molto tempo. Era escluso che ne parlassi con i miei amici. No.
M.B.: Nessuno proprio? Mettiamo che una sua amichetta, una splendida ragazzina del Montana, no mi scusi all’epoca vivevate a Roswell… della quale lei si fosse invaghito e che le avesse chiesto qualcosa, neppure a lei avrebbe mai pensato di raccontare… dopo tutti questi anni non pensa che avrebbe potuto dirle qualcosa?
J.M.: Le avrei detto, "che bella giornata è oggi, il cielo è bello"… niente altro…
M.B.: E se le avesse promesso un bacino, sa, fra adolescenti…
J.M.: Sarei stato molto tentato, ma senz’altro no. C’è da dire che la gente di Roswell non ne sapeva niente. Avevano solo letto sul giornale che era stato trovato un disco precipitato. Ma poi dissero che era stato tutto un errore. E allora non se ne parlò più. Certo, io sapevo ben altro, ma il soggetto non venne riportato più a galla. A Roswell sapevano pochissimo.
M.B.: Come si viveva a Roswell, allora?
J.M.: A Roswell ho trascorso il periodo più bello della mia vita. Il tempo era magnifico, la gente simpatica, la città piccola… ricordo con affetto molti miei amici e conoscenti, i loro nomi. Come Gail Salitas, che viveva a un paio di isolati da casa mia. Impazzivo per la mia bici, nuova di zecca, che avevo desiderato tanto. Questo mi piace ricordare di allora.
M.B.: Facevate anche dello sport?
J.M.: Oh sì, le escursioni nelle pianure, poi avevamo il fucile calibro 22 per sparare alle lattine…
M.B.: Allora suo padre era nel controspionaggio, il CIC, un ufficiale importante presso la base. Aveva modo di passare del tempo in famiglia, oppure no?
J.M: Devo precisare. In effetti, era un ufficiale dell’intelligence militare, non un agente del CIC come Sheridan Cavitt. Sì, passavamo del tempo insieme, facevamo dei picnic a Rio Doso, un posto fuori Roswell dove andavamo spesso.
M.B.: E la domenica c’erano anche i colleghi di suo padre attorno al barbecue nel vostro patio?
J.M.: Sì, spesso venivano uomini della base aerea, ricordo Cavitt e Walter Haut, l’ufficiale addetto alle pubbliche informazioni.
M.B.: Che tipo era Sheridan Cavitt? Di lui non si sa molto.
J.M.: Lo ricordo appena. Mio padre lo conosceva molto bene. Non parlavano mai di affari militari, in nostra presenza.
M.B.: Crede che il fatto che l’incidente sia avvenuto a soli due anni dalla fine della guerra abbia determinato il mantenimento della segretezza su Roswell?
J.M.: Ebbe certamente una grande importanza, perché eravamo appena usciti da una grande guerra ed eccoci alle prese con qualcos’altro e forse non c’era ragione che il popolo Americano dovesse preoccuparsi anche di un altro problema. La tensione del dopoguerra è stato un fattore per tenere tutto più che segreto.
M.B. Il Colonnello Corso mi disse – Paola Harris può confermarlo –  che in realtà la guerra fredda non c’è mai stata. La guerra vera non era affatto finita e il punto era la sicurezza e il garantirsi la supremazia, mediante operazioni gestite nella segretezza totale.
J.M. Era una "hot war", una guerra calda, che non cessammo mai di combattere. C’erano troppi uomini che rischiavano ancora la vita. Non so perché la chiamassero guerra fredda, ma dovevamo sempre restare in guardia, con grande concentrazione e sono certo che accaddero molti fatti tra noi e i Russi di cui non siamo a conoscenza, riguardanti noi e l’Unione Sovietica di quel tempo. Ad esempio le esplosioni nucleari dei sovietici, divenute una delle versioni di copertura dell’incidente di Roswell, quella del Pallone Mogul. Non abbassammo mai la guardia.
M.B.: Secondo Friedman le operazioni di recupero, non di oggetti non identificati, ma più usuali, solitamente vedono l’intervento degli Americani, che arrivano e dicono «Noi sappiamo come gestire la faccenda, se qualcosa è caduto nel vostro Paese, lasciate fare a noi, ce ne occupiamo e, in cambio, vi paghiamo in dollari».
J.M. Sì, anche io credo che accada, ma in nome del fatto che tutte le nazioni dovrebbero unirsi in tali circostanze… dobbiamo lavorarci su insieme, perché anche la Russia di oggi fa e sa le stesse cose con le quali siamo noi alle prese. Una decina di anni fa sono stato in contatto con uno scienziato moscovita specializzato in comunicazioni satellitari, dell’Accademia Sovietica delle Scienze, che mi disse che anche loro hanno i nostri stessi dati, che credevano nello spirito della glasnost e che gli Stati Uniti e la Russia e altre nazioni dovrebbero iniziare a lavorare insieme.
M.B.: In parellelo, potremmo riferirci al programma televisivo "UFO Cover Up Live". Mi colpì durante il collegamento con Mosca che ricercatori come Sergei Bulantseev e altri potessero parlare così liberamente, mentre sembrava quasi che i ragazzi dall’altra parte, gli Americani fossero più reticenti nel fare affermazioni più importanti…
J.M.: Sì, i Russi erano molto più aperti nel parlarne e sembra che, con l’apertura di alcuni dei files del KGB, lo abbiano dimostrato.
M.B.: Questo è un grosso problema per gli USA, perché noi sappiamo che i dossier sono segreti e che, anche con il FOIA, non hai alcuna chance di ottenere alcuna informazione importanti.
J.M.: È una presa in giro.
M.B.: Lo crede davvero?
J.M.: Assolutamente. Prendiamo Stanton Friedman, che ha aspettato per mesi e anni informazioni mediante il Freedom of Information Act e quello che ha ottenuto sono state pagine completamente cancellate. Non c’era nulla, tranne degli indirizzi e quindi cosa puoi fartene?
M.B. Secondo lei il mantenimento di un segreto in questi termini, da parte del governo USA, non è anti costituzionale?
J.M.: Giusto, io credo che negli USA esistano due governi, un governo costituzionale e uno che non è affatto costituzionale. Il primo è sotto il controllo della gente, l’altro non è stato eletto e sfugge a qualunque controllo. Sono un po’ troppo sarcastico, ma credo che negli USA esista un "undercover government", un governo occulto che credo tutti i Paesi abbiano.
M.B.: Senza suonare troppo cospirazionista, sono anche io convinto dell’esistenza dei governi ombra, ma concepire operazioni occulte per il recupero di UFO ovviamente prevede un’organizzazione capillare. Andiamo a Roswell, allora. Al Foster Ranch è ovvio che qualcuno arrivò subito dopo suo padre per pulire tutto.
J.M.: Sì, fecero una bonifica completa. E si assicurarono che neppure un frammento del materiale potesse finire in mani altrui. Mio padre me lo confermò.
M.B.: Se ne deduce che tutte le operazioni di scavo condotte recentemente sono totalmente inutili.
J.M. A meno che non rinvengano qualcosa di forte impatto…
M.B.: Stanno impiegando strumenti sofisticati, rivelatori di metalli…
J.M.: Non troveranno nulla. Un giorno, conversavo nel patio del suo ranch con Bill Brazel, il figlio di Mac Brazel. Sorseggiavamo un caffé in attesa di un’intervista con l’emittente giapponese NKTV. Bill parlava di quanto gli era successo. Prima che l’Air Force bonificasse il terreno, era riuscito a recuperare un frammento e lo aveva riposto nella bisaccia della sella (era a cavallo). Qualche ora dopo, in un bar di un paesino nelle vicinanze di Socorro, Mac si mise a parlare con degli amici di quello che aveva trovato. Si conoscevano un po’ tutti. A quel punto spuntarono dei tizi in abiti civili che, senza qualificarsi, lo apostrofarono bruscamente dicendogli «Sappiamo che lei è in possesso di materiale dell’Air Force» e fu costretto a consegnarglielo. Muri di gomma… altro che pallone meteorologico.
M.B.: Chiaro. Quali erano le distanze fra i Piani di San Augustin, presunto luogo dell’impatto finale e il campo nel Foster Ranch dove suo padre raccolse i rottami? Cosa accadde, secondo una sua mappa e una possibile dinamica del crash?
 
L’allora tenente Jesse Marcel posa per i fotografi con i falsi rottami del Roswell crash, nell’ufficio del Generale Roger Ramey a Fort Worth l’8 Luglio 1947 (foto: archivio Marcel)
J.M.: Per quanto ne so, posso riferirmi solo al "campo dei rottami". È un’ipotesi, ma forse quell’ordigno subì un’esplosione in volo che causò lo spargimento dei rottami sul campo. E sono i rottami che io vidi, che mio padre raccolse. Quando  me li mostrò, sembrava materiale che non poteva far parte di una struttura solida, parti di un velivolo, era molto leggero e quindi poteva appartenere all’interno del disco. Forse era stato espulso all’esterno con l’esplosione, mentre tutto lo scafo e l’equipaggio precipitarono a una certa distanza da lì.
M.B.: Quindi i frammenti che vide secondo lei facevano parte dell’abitacolo?
J.M.: È la mia teoria, magari del tutto sbagliata, ma forse i rottami del Foster Ranch erano solo frammenti del corpo principale, che riprese il volo e si infranse lontano, dove fu trovato anche l’equipaggio. Mio padre non sapeva nulla del punto di impatto finale. Il suo incarico lo limitò al solo campo dei rottami.
M.B.: Cosa sa dello sceriffo Wilcox? Si ipotizza che ebbe un ruolo più importante e che disse meno di quello che vide.
J.M.: Forse, non lo so.
M.B.: Quale fu l’effettiva catena di comando? Al livello più alto c’erano i vertici militari, poi la polizia conteale, quindi i vigili del fuoco, se non erro.
J.M.: Non credo mio padre fosse a conoscenza di altre attività, la sua missione fu circoscritta al campo dei rottami, a ciò che raccolse e che mi mostrò quella notte. Per quanto riguarda altri testimoni, come lo sceriffo Wilcox o il Fire Department (i Vigili del Fuoco, N.d.R.), le ricerche furono eseguite da altri e non ne sono a conoscenza. Questa è la sequenza degli eventi, secondo me: Mac Brazel portò dei rottami dallo sceriffo Wilcox di Chaves County, che a sua volta contattò la base, il cui comandante, il colonnello Blanchard, contattò mio padre e l’agente del CIC che andarono al campo dei rottami e ne raccolsero una quantità significativa.
M.B.: Lei ricorda Blanchard? Che tipo era?
J.M.: Corporatura media, più alto di mio padre. Giocavano a carte la sera, con le loro mogli, sino all’alba.
M.B.: Ebbe mai l’impressione che, in certi momenti interrompessero le loro conversazioni perché il soggetto era troppo "caldo"?
J.M.: Non che io ricordi. Ma è probabile.
M.B.: E sua madre?
J.M.: Anche lei esaminò i rottami e si dimostrò molto interessata, la colpirono soprattutto gli "I-Beam" (barre strutturali, N.d.R.) con impressi i simboli sulla superficie. In realtà non li scoprì lei per prima, fui io che glieli feci notare.
M.B.: Sua madre stava ancora dormendo quando arrivò suo padre?
J.M.: Sì, dormivamo da ore. Al piano di sopra, dove avevamo le camere da letto, la mia sul fronte della casa, quella dei miei genitori dava sul retro. Mio padre ci svegliò e ci disse di scendere in cucina dove aveva sistemato i rottami sul pavimento.
M.B.: Doveva essere un uomo premuroso. Nel film "Roswell" ci viene mostrato come un buon padre di famiglia…
J.M.: Oh sì. Avevamo un forte senso degli affetti familiari…
M.B.: Avevate dei parenti, allora…
J.M. No, eravamo solo noi tre e io ero l’unico bambino. A Roswell mio padre aveva una piccola radio ricetrasmittente WC5I e la usava nella camera da letto per le sue comunicazioni. Lo aiutai a sistemare l’antenna sul tetto.
M.B.: Ed eravate religiosi?
J.M.: Mio padre era cattolico, come me, mia madre era battista, ma non frequentavamo spesso la chiesa.
M.B.: La guerra era finita, la sua infanzia fu felice, ma arrivarono  la Corea e poi il Vietnam. Come visse quel periodo?
J.M.: Risiedevamo a Washington D.C., quando esplose il conflitto in Corea, nel 1950. Mio padre ne aveva avuto abbastanza del servizio militare e voleva tornare a casa, sua madre era piuttosto anziana, e si congedò nel ’50 o ’51. Ritornammo a Leesville, in Louisiana, dove viveva sua madre.
M.B. E durante la guerra del Vietnam lei era trentenne.
J.M.: Sì. Ero nella Marina degli Stati Uniti.
M.B.: E cosa pensava di quella guerra?
J.M.: Non mi interessavano gli aspetti politici della situazione militare, ero imbarcato su un’unità spesso in servizio nei mari del sud-est asiatico, effettuavamo il trasporto di truppe da combattimento pronte all’azione. Prima mi ero ritrovato nel pieno della crisi missilistica di Cuba ed ero stato assegnato alla zona dove avremmo dovuto tentare di invadere Cuba. Se ora sono qui è perché non andai alla Baia dei Porci, altrimenti avrei fatto la fine del nostro contingente dopo lo sbarco. Fui fortunato, mi richiamarono, impacchettai tutto e rientrai.
M.B.: Lei prese però parte ad azioni di combattimento?
J.M.: Sì.
M.B.: E dovette uccidere qualcuno?
J.M.: Ero pronto a farlo. Ero ben addestrato e sempre armato. Durante i voli di trasferimento sono stato anche alla mitragliera di bordo, pronto a far fuoco per difendere il mio aereo e l’equipaggio. Anche se ero un dottore, questo rientrava nei miei compiti. Non puoi offendere, ma ti devi difendere.
M.B.: Possiamo parlare del suo recente servizio in Medio Oriente? In Iraq?
J.M.: Ci sono stato per 13 mesi. Sempre in condizioni di combattimento, eravamo di stanza a Balaat, a 40 miglia a nord di Baghdad. Non sapevi mai cosa attenderti, se un istante dopo saresti stato ancora vivo… il rischio era altissimo. Anche in volo eravamo sempre sotto tiro, proiettili ovunque. Fortunatamente non siamo stati colpiti. Come chirurgo di prima linea venivo trasportato sempre su un elicottero nero. Dovevo assistere gli equipaggi e prestare soccorso ai feriti.
M.B. Prima ha fatto cenno al suo governo. Quali sono secondo lei le ragioni che giustificano l’operazione in Iraq, a partire da quando Bush dichiarò guerra al terrorismo mondiale dopo l’11 Settembre e promise una guerra lunga 50 anni?
J.M.: Andrà avanti certamente così per 50 anni. La catastrofe dell’11 Settembre ci ha insegnato una lezione: questi terroristi sono l’espressione di un terrore fascista, contro il quale dobbiamo proteggerci e perseguirli e prevenire un altro attacco alla nostra nazione, se sarà possibile. Potrebbe non essere possibile perché guardando ad altri attacchi terroristici nel mondo, sinceramente non vorrei ritrovarmici in mezzo, perché ho visto cosa sono capaci di fare. Ho visto esplodere le autobombe, ho visto gli attacchi suicidi e queste persone non sono gente normale. Sono imprevedibili, cammini fra i banchi di un mercato e una di loro si fa saltare in mezzo alla gente. Una volta un’autobomba esplose a ridosso del nostro posto di guardia e mi precipitai in aiuto degli uomini. Non indossavo il giubbotto anti-proiettile e mi dovetti accucciare per proteggermi. Attesi solo pochi istanti, poi non c’era più niente da fare, erano tutti morti.
M.B.: Secondo lei all’origine c’è solo una forma di fanatismo religioso, oppure un meccanismo indotto mentalmente in questi soggetti?
J.M: Vorrei riuscire a capirlo, ma so solamente che volevano ucciderci. Non sono tutti così, ma lo sono molti islamici. Un fanatismo che non capisco. La gente si chiede: perché dobbiamo essere lì, in Iraq? Perché la nostra è una missione. Ho partecipato a molte missioni e ho visto le fosse comuni piene di cadaveri. In una di queste fosse c’era il corpo di una donna che stringeva al petto un bambino, erano stati colpiti alla testa. Come si può uccidere così un piccolo e la sua mamma? Chi può fare una cosa del genere?
M.B.: Una scena che può far piangere anche un vecchio soldato come lei, ma non è lo stesso tipo di nodo alla gola che ti prende nel vedere le bare allineate davanti agli aerei e coperte con la bandiera americana?
J.M.: Sì, abbiamo trasportato in volo tante di quelle sacche mortuarie e mi sono sempre commosso…
M.B.: E sono tutti poco più che ragazzi…
J.M.: Vede, se parliamo di veterani come me… noi non abbiamo più nulla da perdere. Ma quei giovani soldati, di 18-20 anni, ne ho visti morire tanti…
M.B.: Questi giovani lo fanno per un ideale patriottico?
J.M.: Sì, sono militari, sono stato con loro, lo fanno per amor di patria. Hanno una missione e nei loro occhi non ho mai scorto un tentennamento rispetto al loro lavoro, soprattutto dopo che l’hanno provato sulla propria pelle e hanno visto quello che succede lì. C’è chi dice che in Iraq non c’erano depositi di armi di distruzione di massa e invece sì, c’erano e li abbiamo individuati, si trovavano lungo le linee che vanno dall’Iraq alla Siria.
M.B.: Tutto ciò è molto difficile da capire, ma lei è stato lì per tredici mesi…
J.M.: È una grossa fetta della mia vita, trascorsa in una zona ostile sotto il fuoco del nemico, un’esperienza che mi ha segnato profondamente e mi ha cambiato per sempre. E quello che ho visto mi ha fatto invecchiare dentro.
M.B.: Cambiamo discorso. Lei guida ancora la sua motocicletta?
J.M.: Sì, sono stato un motociclista per 34 anni. La mia ultima moto, una Yamaha Virago 750 nera, è ferma da un po’ nella mia casa in Montana, ha bisogno di riparazioni. Ne vorrei prendere una nuova, appena possibile. Abbiamo dei cavalli. Sa, li usiamo ancora, per l’addestramento delle truppe per l’Afghanistan, dove abbiamo la cavalleria, sorprendente, avere ancora soldati americani a cavallo…
M.B.: Lei ci ha creduto quando hanno detto che Bin Laden è fuggito con una moto da enduro?
J.M. Certo, è possibile.
M.B.: Torniamo a Roswell. Il colonnello Corso ha detto che per il trasporto dei corpi usarono vie di terra, mentre per le parti del disco lo fecero con gli aerei, per ragioni di sicurezza.
J.M.: Sì, Corso lo ha specificato. Non lo so per certo, ma rientra nelle possibilità e nella logica. Molti dei rottami vennero trasferiti in aereo ad alta quota, sino a Fort Worth, destinazione finale l’ufficio del Generale Ramey. I voli a bassa quota furono effettuati con i B-29, che trasportavano i materiali e il personale di guardia dentro carlinghe non pressurizzate.
M.B.: Corso disse: "Ho visto e poi ho dimenticato tutto per 27 anni, sin quando sono arrivato nell’ufficio del Generale Trudeau. Lui aprì l’armadio con l’archivio di Roswell e mi disse che ero io l’uomo giusto per gestirlo".Questo vuol dire che un militare deve prima apprendere e poi dimenticare perché questo è il suo dovere?
J.M.: Sì, questo è il primo dovere di un militare, gli aspetti secondari della missione riguardano altri. La tua missione è lì, la tua attenzione è concentrata al massimo e le questioni collaterali non ti riguardano.
 
Jesse Marcel Jr., fotografato all’aeroporto di Albuquerque nel 2009 (foto: Maurizio Baiata)
M.B.: Allora, solo come chiarimento finale. Lei ha specificato di non aver visto fra quei materiali, le lamine di metallo-memoria che una volta accartocciate tornavano alla loro forma originale, come si vede nel film. È così?
J.M.: Sì, non ho visto quell’effetto e non ho provato a piegarle e mi dispiace non averlo fatto. Era molto flessibile e leggero, ma non provai a piegarlo o deformarlo.
M.B.: Grazie, Colonnello Marcel.
J.M.: Grazie a lei.
Maurizio Baiata, 29 Novembre 2011

 
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